Liberi fino alla fine

Il 9 giugno Papa Francesco ha ricevuto i dirigenti degli Ordini dei medici di Spagna e America Latina in Sala Clementina, alla vigilia del Giubileo degli ammalati e delle persone disabili. Ai 150 medici presenti, Papa Francesco ha detto che la compassione è l’anima della medicina, ma compassione non è pietà, è “soffrire con”.

Per la prima volta da quando tengo questa rubrica, sono io a scrivere una lettera e non a rispondere.

La mia lettera è per Papa Francesco.

«Caro Francesco, vieni, siediti accanto a me e facciamo due chiacchiere.

Non so se a te piace la birra, ma è la mia bevanda sacra e ne sorseggio un po’ quando ho bisogno che lo spirito si plachi e la mente si apra.

Tu dici che, nella nostra cultura tecnologica e individualista, la compassione non sempre è ben accolta, che alcuni si nascondono dietro una presunta pietà per giustificare ed approvare la morte di un paziente. Dici che la vera compassione non emargina e non umilia, non esclude, non considera una cosa buona la scomparsa di chi patisce condizioni fisiche e di salute diverse dagli altri. Dici che c’è una falsa idea di compassione, una “cultura dello scarto” nella mano di chi cede alla tentazione di “applicare soluzioni rapide e drastiche”.

Vedi, Francesco, alcune vite non sono rapidamente e facilmente interrotte dalla tecnica, al contrario sussistono, senza la mano di Dio, solo perché la tecnica lo permette. E alcune persone, che vivono quelle vite, non le considerano umane, bensì solo meccaniche.

Proviamo a fare una cosa, tu ed io, adesso. Proviamo a pensare alla morte con gli stessi criteri con cui pensiamo alla vita. Così come ci preoccupiamo della qualità della vita, dello stile della vita, delle condizioni e delle possibilità della vita, ci riguardano anche la qualità, lo stile, le condizioni della morte. Ci sono circostanze “di vita” in cui la morte è qualcosa su cui dobbiamo decidere, perché coinvolge ciò che siamo, ciò che pensiamo, ciò che sentiamo.

Francesco, tu dici che la vita è un dono di Dio, ne chiedi il rispetto fino all’ultimo respiro. Io dico che questo ultimo respiro è qualcosa di cui mi voglio prendere cura. In esso avviene il mio ultimo momento di espressione e di senso.

Se la vita non è mera animazione della materia, perché deve esserlo la mia fine?

Vedo la tua pietà per i pazienti e vedo il tuo amore per loro. Sono uguali i sentimenti che ci portano ad avere opinioni diversei e diversa empatia di fronte al dolore. Accettazione di esso, per te. Libertà di scelta, per me.

Il filosofo Umberto Galimberti ci ricorda il significato del termine “eutanasia”. Questa parola significa “buona morte”, la morte umana che spettava all’uomo misurato, probo.

La buona morte non intacca il valore della vita: non temere, Francesco, nessuno tenta di abolirlo.

La buona morte orienta il nostro sguardo al valore dell’uomo, alla sua libertà di stabilire la propria misura di sopportazione di quelle condizioni che egli avverte disumane, laddove la medicina e gli strumenti della tecnica disponibili fanno della sua storia umana un meccanismo solamente biologico.

Per i malati, tenuti in vita dalla tecnologia, per i malati per i quali questa non è una soluzione vivibile, io chiedo la libertà di scelta, io chiedo per loro il diritto di andare incontro ad occhi aperti alla loro buona morte, con il conforto amorevole delle persone che li hanno accompagnati.

Alla fine del mio cammino terreno, c’è un Vulcano.

Come lo raggiungerò è un fatto che mi riguarda.

Spero di avere la tua benedizione, il giorno in cui mi assumerò la responsabilità e la libertà di decidere.

Tu avresti la mia.»

Spappessa (ex Pastefice Massima), assatirata, compagna di arrembaggi di artistə perseguitatə per ideologie religiose, ispiratrice con le sue accorate parole della Ciurma Pastafariana dalla Campania a tutto lo Stivale.

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