Una Piratessa Fortunata
L’8 marzo per me è un appuntamento importante. Fin da quando ero ragazza. Non è una festa. Non riesco a considerarla tale.
È un appuntamento che si è modificato nel tempo, sia nel mio modo di affrontarlo che nelle motivazioni che mi spingono, ogni anno, ad esserci.
Si intersecano sempre due livelli, quello personale e quello collettivo. Quello collettivo, poi, ha svariate divaricazioni, perché c’è la mia comunità di riferimento, il contributo di altre voci, alcune persino contrapposte, ci sono l’esempio o i casi che provengono da paesi o gruppi sociali diversi.
Come molte persone di sesso femminile ho fatto esperienza diretta di quanto ciò possa condizionare non solo i rapporti domestici, ma predeterminare gli esiti di certe opportunità professionali o complicare rapporti formali.
Durante l’adolescenza, l’8 marzo doveva servirmi a disabilitare questi stereotipi e a riconoscere le situazioni in cui agivano a mio danno.
I temi dell’emancipazione femminile accompagnavano il mio distacco dalla famiglia, ma anche il modello di relazione che avrei voluto per me e le condizioni di lavoro che avrei accettato o respinto.
Che cosa significa essere lavoratrice, moglie, madre, cioè, erano concetti che non stavo più ereditando, ma scegliendo e costruendo.
Una attivista che frequentava il centro sociale in cui sono cresciuta, più grande di me, con la quale non avevo neanche avuto particolari interazioni, un pomeriggio mi mise in mano un piccolo libricino di Aleksandra Kollontaj: “Tieni, te lo regalo. Leggilo. Poi te ne darò altri”.
La lettura di questa “antifemminista” fu una di quelle che maggiormente avrebbe inciso sul mio modo di guardare al mio percorso di crescita e al mio rapporto con gli altri sessi. In principio, ho utilizzato queste conoscenze per elaborare situazioni del mio vissuto.
Ad esempio, a proposito della sua separazione dal marito, la Kollontaj scrisse: “Un figlio non avrebbe mai potuto rendere indissolubili i legami di un matrimonio”.
Imparai che mia madre poteva essere madre senza fare di me il perno delle sue decisioni, compresi che essere mia madre non la obbligava a essere moglie.
Vedendo lei in modo diverso, concepii diversamente anche il mio ruolo di figlia e riconsiderai i bisogni da affidare alla tutela della famiglia, la quale può reggersi sul dovere, sul sacrificio a dispetto di sé stessi, è vero, ma anche sulla responsabilità reciproca a riguardo della realizzazione di ciascuno oltre se stessi.
La parte che mi fu utile a lungo termine fu quella che mi portò concepire la lotta per l’uguaglianza di genere come la tappa di un progetto politico ed etico molto più ampio, ovvero come passaggio verso l’abbattimento della logica del padrone e del potere, dello sfruttamento e della deliberata appropriazione o gestione del corpo altrui nei rapporti sociali, affettivi, produttivi.
La questione femminile è un fenomeno storico, è l’effetto visibile determinato da strutture e tradizioni fondate su un’idea precisa dei ruoli. La liberazione delle donna era, per me, una fase di una liberazione molto più ampia e preliminare ad essa.
Questo lo capivo anche perché nel frattempo ero diventata educatrice e caso volle che i miei allievi fossero principalmente persone di sesso maschile: potevo vedere con i miei occhi quanto le stesse dinamiche di violenza e sopraffazione che affliggevano noi donne, infierivano in forme e con finalità diverse su di loro.
Mi sento una piratessa fortunata perché ho avuto accesso a molti strumenti di emancipazione ma anche di riconciliazione, che reputo liberatori altrettanto quanto i primi.
Come ogni anno, da quando hanno avuto capacità di sostenere una conversazione, questa sera uscirò con le mie figlie.
È nostra tradizione scegliere un personaggio significativo della lotta per l’uguaglianza tra donne e uomini oppure un tema.
In queste serate dell’8 marzo, capita spesso che le mie figlie vogliano parlare di come i genitori (anche le mamme) educano i figli maschi, come li rendano impreparati a tollerare i rimproveri delle maestre, ma a sopportare quelli dei mister, come siano autorizzati a essere scomposti perché vivaci o a tirare le trecce solo perché sono gelosi.
Quindi c’è sempre modo di inserire le nostre esperienze personali, ma anche di apprendere da testimonianze che giungono da lontano.
Durante il primo anno di pandemia parlammo delle donne che in Pakistan avevano ricevuto cure meno tempestive rispetto agli uomini perché, in quanto femmine, non potevano essere toccate (visitate) da qualsiasi medico.
Sulle donne pakistane siamo ritornate anche lo scorso anno, perché le attiviste della marcia erano state accusate di blasfemia, porta sicura per il carcere.
E cosa avevano fatto di blasfemo? Avevano protestato in piazza usando gli slogan delle nostre nonne e mamme: “il corpo è mio”.
Stasera, alle mie figlie, vorrei parlare del tempo.
Del tempo che ci vuole.
Del tempo che c’è voluto per ottenere contratti di lavoro equi, per non temere licenziamenti se resti incinta, per amare liberamente e per lasciare senza pericolo chi non si ama più, del tempo che ci vuole per avere il permesso tanto di essere madre, quanto di non esserlo, del tempo che ci è voluto per sedere in parlamento, per avere conferenze scientifiche non di soli relatori uomini (e capita ancora di sentire “Oh, quante donne” e ancora non capita di sentire “strano, sono tutti uomini”)…
Oggi i mariti stendono il bucato e caricano la lavastoviglie.
Molti lo fanno non nello spirito di aiutare la moglie, ma semplicemente perché pensano che anche a loro spetti una parte di lavoro domestico.
I papà mettono a dormire i piccoli, danno loro il latte.
Sanno che essere padri non significa essere un portafogli o un guardiano, ma una persona che si prende cura dei suoi bambini.
Ma c’è voluto tempo perché lo scoprissero e sono state le donne a dirglielo.
Tutto questo tempo che c’è voluto non è scorso dappertutto. Ci vorrà altro tempo.
Perciò, chi ha fatto un passo avanti, non dovrebbe mai dire che le cose sono finalmente cambiate, che non è più così, perché dietro le nostre spalle, e a volte accanto alle nostre spalle, per qualcuno o per molti ancora non è così.
La prima giornata della donna in Italia fu celebrata nel ‘45. Ma già pochi anni dopo distribuire la mimosa divenne «turbare l’ordine pubblico» e un banchetto per strada era «occupazione abusiva di suolo pubblico». Abbiamo fatto molta fatica per comunicare le nostre idee a riguardo di noi stesse.
E le mimose sono fiori bellissimi, anche se non si portano a una festa.
Cosa dire, grazie!
parole piene di ottimismo e speranza,
Nuccia