Il fegato del pirata

LETTERA

Ogni tanto mi intrufolo nei vostri eventi e vi guardo in disparte, sorridendo.

Voi pastafariani siete buffi.

Parlate di imprese e arrembaggi, vi travestite con qualche rattoppo da pirati: ed ecco pronti gli eroi.

Non intendo criticarvi, anzi, ti sto scrivendo con una certa benevolenza. Direi di aver posato su di voi uno sguardo alquanto indulgente, da genitore che osserva dei bambini giocare alla guerra, alle avventure, sapendo che presto si ficcheranno a nanna sotto coperte che nessuna bomba verrà a squarciare.

Non elencarmi le splendide, edificanti attività in cui vi impegnate, lo sforzo divulgativo, contro-informativo… ti ho ascoltato, sei esaustiva e convincente. So tutto di Idomeni, di Como, della battaglia anti-gender, dell’attivismo satirico. Le mie domande sono più nette. C’è ancora posto per azioni di coraggio in un’esistenza a temperatura media come la nostra? E il vostro è autentico coraggio? O è solo una finzione molto ben interpretata, diciamo… con sincera immedesimazione? Le ingiustizie contro cui vi agitate sono davvero una minaccia? O sono mostri a cui va a caccia il bambino per interrompere la noia del pomeriggio?

G. A.

RISPOSTA

Coraggio. Azione di cuore. Avere cuore. Avere forza.

L’eroe classico era un comune cittadino che partiva alla guerra, dotato di straordinarie virtù umane, grazie alle quali egli era in grado di sacrificarsi per il bene di tutti. La gloria eroica, dunque, è conquistata dall’uomo che supera la dimensione personale per quella comunitaria. È l’“io”, “per voi”.

Mi chiedo se la guerra, la miseria, la dittatura, ovvero condizioni estreme di vita, siano le sole a poter attivare il coraggio.

Mi chiedo se la guerra, la miseria, la dittatura, spuntino come funghi, all’improvviso, dopo un’occasionale piovuta; se non siano invece lungamente preparati dalla mentalità, dalla cultura che si forma nelle scuole, nelle case, nelle chiese, nelle strade. Nelle nostre camerette. E camerate.

Mi chiedo se gli incubi sconvolgono le menti solo dopo grandi abbuffate o biblici digiuni, o non striscino nella psiche anche durante il sopore apparentemente innocuo della noia pomeridiana.

Tu, mi* car* lettore/lettrice, osservi da lontano la “medietà” della nostra esistenza, reputandola una scarsa minaccia e una prova sovrastimata dalla carica e dal trasporto pastafariano, ma ho un punto di vista assai diverso dal tuo a proposito della potenza subdola della “medietà”. A mio avviso, essa è proprio il terreno sottovalutato in cui germogliano semi dispettosi, bugiardi, disumani.

In molte occasioni della mia vita mi sono trovata a riflettere sul rapporto tra carattere e destino, sulla violenza d’urto dei grandi eventi sulla personalità. Ebbene, il grande evento è una straordinaria opportunità. È, appunto, uno squarcio su un letto dove si è attardato inutile il riposo. L’evento estremo che per istinto e dinamica di soravvivenza libera il coraggio, è vero. Ne serve, allora, per vivere mediamente?

Ne serve di più, o meglio, di altra specie.  Non è la tragedia che ci rende inabili, è il peso della quotidianità. Contro di essa assai più difficile è indirizzare azioni grandiose ed eccelse. Ecco la medietà alla quale alludi e che reputi movente da messa in scena. Essa è un sistema che il tarlo ci scava intorno, mordendo nel legno senza destare attenzione.

Saul Bellow scrisse: «La paura governa il genere umano. Il suo è il più vasto dei domini. Ti fa sbiancare come una candela. Ti spacca gli occhi in due. Non c’è nulla nel creato più abbondante della paura. Come forza modellatrice è seconda solo alla natura stessa.»

Sì, è vero… ma io penso anche un’altra cosa. La paura viene dopo; quando non è di quella specie istintiva che emerge dal pericolo contingente, è essa stessa una forza indotta. Dunque cosa la induce? Cosa la insinua?

La forza modellatrice più potente è il “costume”. Certo non parliamo di una voragine, non è una frana, non è un missile. È un’acqua che scorre voluta, costruita, organizzata. L’abitudine, la convenzione, la quotidianità. Non giunge all’improvviso. Non richiede interventi di contrasto acrobatici, ma sistemici.

Anche sul piano personale, osservo la mia vita e mi accorgo di essere proprio certa di quello che sto scrivendo. Gli eventi drammatici, dolorosi, traumatizzanti che hanno segnato anche la mia biografia sono stati folgori che hanno illuminato il cielo, un cielo creduto calmo e “giusto”, spacciato per tale con rassicurazione “media” da tutte le persone e le circostanze a me intorno. Ciò che ha condizionato il mio percorso, però, è nella chiusa che si è riallacciata dietro lo squarcio, il momento in cui la decisione presa all’istante è diventata pratica ed io mi sono “sistemata” in quello che si definisce equilibrio, ma che altro non è che andamento.

Cosa mi domandi? Per non essere ridicoli e per avere coraggio dobbiamo attendere l’evento, mi* car* amic*? Non temi e questioni, ma fatti storici, diretti? E i temi e le questioni non lo sono forse? Idomeni e Como, l’ideologia anti-gender non sono forse costellazioni di fatti che riguardano la vita? Sono pretesti per un gioco? Non mi pare. Sono circostanze su cui schierarsi. Non credi?

Dobbiamo attendere la riduzione in schiavitù per mettere in moto affermazione di intenti e di vedute, di condotte? Altrimenti, farlo prima, è un narcisistico paravento? Anche il coraggio è teso tra domanda e offerta?

Io dico che non possiamo giungere all’appuntamento col destino, se non ci siamo impegnati in un esercizio quotidiano a pensare che le cose possano essere diverse.

Coraggio. Azione e cuore. Mah.

Non mi reputo molto sentimentale in questo periodo. E sento che la sede del mio ragionamento non è il cuore.

È il fegato.

Sì, i pirati non hanno cuore. Hanno fegato.

Il fegato è un cervello dotato di sentimento e rabbia, oltre che di una certa schiettezza che rifugge fronzoli. Non solo prende in mano le situazioni sul momento, scoprendo magari una insperata capacità di fare, ma è anche l’organo della resistenza: il fegato sopporta la pressione, incassa gli stronzi, accumula i veleni. Tollera, anzi, ospita l’effetto dei vizi, dei piaceri, degli oblii. Il fegato è la sede della nostra solitudine, l’organo che si rovina per la gioia e per l’intossico. Il fegato sopporta ciò che la quotidianità ti ficca in pancia, ma non lo interiorizza. Se non si ribella, si fa duro. Il fegato aspetta. Il fegato è il centro che emette messaggi veri, senza retorica, che enumera maleparole, il fegato ricaccia su la bile e ti fa vedere che sei ferito, prostrato, che davanti allo specchio di eroico non c’è proprio nulla: sei un uomo distrutto.

Il fegato è il nostro scolapasta interiore e filtra tutta la merda.

Si consuma. Non conosce gloria. Alla fine della vita è una spugna marcilenta. L’organo più sincero col quale siamo vissuti.

Vedi, amic*, il risultato delle percezioni sociali di cui riconosciamo e osteggiamo il potere, non è immobile, ma non è facilmente modificabile, perché quella grande forza modellatrice che è il costume riproduce involontariamente i suoi schemi e i suoi modelli.

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Tra l’habitus ereditato e il mio travestimento c’è una relazione di condizionamento; la speranza di modifica non è solo nello squarcio, ma nella costanza con cui la relazione è forzata: la pazienza del fegato.

Noi, pirati pastafariani, non siamo pedine astratte di un gioco da osservare da lontano. Inoltre, le scelte razionali o “eroiche” di cui siamo capaci non sono acquisibili solo in determinate condizioni economiche e sociali.

La fantasia, il gioco, la satira forzano le serrature. Ogni volta che indossiamo le nostre vesti, siamo consapevoli di essere dentro e non fuori del sistema, di essere uomini come gli altri e che, quindi, siamo limitati dalle informazioni disponibili, dai mezzi con cui pensare alle situazioni, dalle strutture sociali. I pirati pastafariani sono consapevoli di questo, sono anti-eroi. Possiamo capire, però, che il senso non esiste solo nei rapporti economici e politici, ma anche nella dimensione simbolica che contrappone alla medietà oggettiva del quotidiano la soggettività, con tutta la sua vulnerabile, potente, realtà.

Quindi mi* car*, è con il fegato che sopporto l’andamento medio del sistema in cui vivo, è con il fegato che stillo la gioia, la convivialità di essere parte di un mondo umano conforme ma per nulla immobile, aperto ad essere solcato; è con il fegato che elaboro la rabbia e dimentico il dolore.

No. Non ho coraggio. Non sono un’eroina. Ho il mio fegato, vediamo quanto dura.

Nel conflitto tra ordine e opportunità, in cui è attanagliata la mia vita, resto sul mio pennone a fissare l’orizzonte, in compagnia del mio rum, del mio pappagallo. La ciurma resta giù, leggendo il mio silenzio, fingendo di non notarlo. Mi raggiungono i loro canti.

Ma a te, amic* car* che scrivi, rispondo essenzialmente solo questo: non intrufolarti, non nasconderti, non osservare da lontano: travestiti!

Qua c’è un goccetto pure per te. Avanti, apri il fegato!

Scialatiella Piccante

Spappessa (ex Pastefice Massima), assatirata, compagna di arrembaggi di artistə perseguitatə per ideologie religiose, ispiratrice con le sue accorate parole della Ciurma Pastafariana dalla Campania a tutto lo Stivale.

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