Il Pastafarianesimo è una religione
Gentile redazione de La Repubblica,
sono “tal” Pappessa Scialatiella Piccante I, guida spirituale della Chiesa Pastafariana Italiana, al secolo Emanuela Marmo.
Scrivo in riferimento all’articolo di Pietro Del Re datato 17 agosto 2018.
Giacché la notizia riguarda la religione professata dalla mia Chiesa e considerando che sono espressamente citata dal vostro articolo, mi sento autorizzata a chiedere che la vostra testata pubblichi questa lettera.
Ho il dovere di esprimere un’opinione su quanto la frittella olandese subisce, rappresentando il mio sentito appoggio a Mienke de Wilde. Ho il dovere di dare riscontro ai frittelli italiani che mi domandano di intervenire perché sia fatta una informazione più obiettiva.
Parto da alcune evidenze pragmatiche.
I pastafariani non sono organizzati in sette, bensì in ciurme. In Italia le ciurme danno vita a Pannocchie e, via via, a centri di fede più complessi.
Il termine “seguace” non è appropriato. Sarebbe più consono quello di “fedele” o “credente“.
Non comprendo in base a quali criteri la richiesta di indossare il nostro copricapo appaia uno scherzo.
La nostra religione ha vissuto per millenni all’oscuro di molti. Posso immaginare la sorpresa che ha colto la comunità mondiale alla rivelazione del nostro profeta Bobby Henderson. Non vedo altri motivi di stupore. Cosa c’è di sorprendente nel nostro abbigliamento sacro? Turbanti, corone piumate, maschere e tiare sono davvero più ordinarie e discrete?
Perché pastafariani è scritto tra virgolette? Non è slang. Non è gergo. Usate le stesse cautele ortografiche con le altre minoranze etniche o religiose? Perché Pappessa è scritto con l’iniziale minuscola?
Quali sono i fattori che riconoscono dignità e spazio d’esistenza a una cultura? Il potere, il governo dovranno indicare alla stampa i formulari cerimoniali con cui rivolgersi a questa o quella guida spirituale? In assenza di tale indicazioni, che si fa? Potremmo affermare che l’attenzione e l’approfondimento sono da assicurare senza pregiudizio?
Sono domande lecite, eppure sono certa che l’autore dell’articolo non sia in malafede. Credo si sia sentito libero di adottare un tono scanzonato, rilassando ogni nervo formale, perché ha senz’altro ravvisato nel linguaggio pastafariano benevolente semplicità. Ha fatto bene.
Tuttavia, altrettanto allegramente, provo ad approfittare della fortunata attenzione che oggi ci coinvolge.
Perché il pastafarianesimo non è trattato al pari di altre religioni?
Sono la storia, la durata della tradizione, il valore economico dei beni posseduti da una chiesa, sono i privilegi, la capacità di venire a patti con i governi, determinando gli usi, i costumi e i diritti dei cittadini, a dare misura del senso di una religione? O hanno pari valore la facoltà di determinare un pensiero, il discernimento del singolo che intorno a concetti e ideali condivisi stringe relazioni fino a formare gruppi dotati di coscienza civile?
Le chiese cristiane, su base biblica, esistono in qualsiasi luogo ove due sono riuniti in nome di Cristo.
Ebbene, molti si riuniscono in nome del Prodigioso sulla base di un testo che è oggetto di studio e culto.
Così come il crocifisso da tanti è inteso quale simbolo sacro e al contempo culturale, il colandro pastafariano è strumento liturgico quotidiano e anche icona che, attraverso la metafora del nutrimento e della convivialità, trasmette all’esterno i principi religiosi e gli ideali sociali dei pastafariani.
La vita spirituale dei pirati pastafariani non è diversa da quella di fedeli di altri culti. Si svolge illuminata da credenze, si consuma attraverso rituali e celebrazioni. La vita pubblica pastafariana appare effettivamente più singolare, perché caratterizzata da un modus operandi razionalista, ironico, possibilista. Per questo motivo l’elemento satirico rinvigorisce molta parte della nostra comunicazione pubblica, offrendo una possibilità di superare ed elaborare le divergenze evitando di imporre le proprie convinzioni.
Esplorare la vita con gioia, disincanto e dubbio non è un atteggiamento poco serio.
Puntare le vele nella coscienza della propria libertà e responsabilità, dando attenzione e valore alla vita terrena e presente, non è una scelta poco seria. Comunicare e percepire gli altrui messaggi senza cedere il fianco alla propaganda o a coloro ai quali è concesso il lusso di entrare nell’esistenza dell’individuo quando questo non ha ancora raggiunto l’età per fare valutazioni razionali e autonome, non è poco serio. Che ciò accada, ad esempio, davvero non è uno scherzo, eppure, vedete, se non ci fossero bricconi come noi non farebbe notizia.
La via pastafariana alla convivenza pacifica e alla pari suggerisce l’estensione dei diritti, al di là di ogni pregiudizio di immagine.
Agli occhi del chi guarda da lontano il digiuno, la castità, la fustigazione, la fede nel miracolo o nelle apparizioni appaiono egualmente scherzi della ragione. Se l’uomo cerca la pace in un’ostia o all’ombra di una pietra caduta dal cielo, chi siamo noi per giudicarlo? Chi sono loro per giudicare il Vulcano eruttante birra, mentre eterna, sessuale e voluttuosa, innocente e prelibata, si svolge la danza di uomini e donne prodigiosi?
Vi raggiunga la mia pennedizione, con l’augurio che bendiate l’occhio abituato a procedere automatico e scopriate il piacere di essere vedette: in alto si sta benissimo, se è per vedere meglio.
Con ammmore (tre emme),
Pappessa Scialatiella Piccante I