L’otto Marzo di Piratessa Scialatiella Piccante
Lavori il doppio per igienizzare i luoghi di lavoro in cambio di salari mortificanti e senza adeguate misure di protezione dal contagio.
Lavori nelle case degli altri, devi accettare turni aggiuntivi, altrimenti perdi il permesso di soggiorno. Dai fondi sociali del Family Act, sei esclusa, proprio tu che tanto servi alla nostra famiglia.
Lavori a chiamata, ma i tuoi figli sono a casa, spetta a te. Lavori a distanza, ma non c’è scuola, il tuo lavoro è frammentato da richieste di attenzione, devi cedere il tuo computer. Non puoi concentrarti. Devi occuparti di loro, dei tuoi anziani genitori, ma sei anche in riunione. Hai perso il lavoro o non hai potuto accettarlo perché della famiglia e della casa devi occuparti tu.
Sei stata mandata via dai reparti IVG, non ti hanno risposto, hai telefonato innumerevoli volte, il medico non è disponibile, è obiettore: e con la pandemia, una nuova potentissima scusa rende le tue priorità di scelta un’opzione rispetto agli interessi generali della società.
Sei stata chiusa in casa, come se la tua fosse un riparo, in realtà sei stata dimenticata nelle violenze da cui pure cerchi di uscire. Sono tuo padre, tuo marito, tuo fratello il luogo, oggi senza scampo, della tua segregazione.
Lavoravi in strada, adesso devi ricevere i clienti in casa. Aumentano i pericoli, aumenta il rischio di contagio, però hai meno soldi di prima e non arrivi a pagare l’affitto. Ma il tuo mestiere è biasimato, è svergognato. Nessuna tutela è prevista per te, se non l’assistenza volontaria di qualche associazione filantropica.
Abbiamo impiegato ogni nostra vitalità per rispondere al valore di mercato, per conformarci agli standard richiesti ai lavoratori maschi. Cioè abbiamo impiegato ogni nostra vitalità e abbiamo avuto il peggio nelle stesse situazioni che già avevano rovinato loro.
Quanta indipendenza abbiamo guadagnato grazie al nostro lavoro? Interroghiamo l’aspetto dei nostri rapporti sociali per rispondere. Quanta indipendenza abbiamo guadagnato? Interroghiamo lo spettro di esperienze umane, sessuali, creative che ci è dato di vivere per rispondere. E allora ci rendiamo conto che i risultati se non sono parziali, sono tenacemente da difendere e ribadire.
In quest’anno che lo sciopero è obbligato a disertare le piazze, possiamo verificare in maniera ancora più scottante che il primo terreno di battaglia è biografico e personale.
Lo sfruttamento economico della donna non si limita a mere questioni di paga, si estende a quell’insieme di attività che ci si aspetta che siano assolte dalle donne e che di fatto consentono ad altri di lavorare, di accrescersi nella professione, di trovare tempo per interessi e progetti di vita. Gli oneri di cura, che la pandemia riscatta ogni giorno, sono riversati sulle donne. La didattica a distanza, lo smart-working che consentono la formazione dei figli o il mantenimento il lavoro, si reggono sulla straordinaria offerta di tempo e di energia che è scontato chiedere alle donne.
Le donne sono essenziali, ma il modo che la società ha di riconoscere questo è di aggiogarle e sacrificarle: lo scorso anno in Italia 444.000 persone hanno perso il lavoro. Oltre il 70% di loro è donna.
E le donne, nelle loro famiglie, oggi sono più sole. Per millenni hanno imparato a sostenersi a vicenda: madri, sorelle, cognate, si prestano aiuto l’una con l’altra. Le potenzialità di autonomia della donna e di efficienza della donna sono date dalla rete di relazioni affettive e cooperanti di cui dispongono e che costruiscono da sole, mancando strutture pubbliche di servizio. La pandemia ha isolato e interrotto anche questo.
L’8 marzo è contro lo sfruttamento, contro il lavoro a intermittenza, precario, ricattabile, gratuito. Rivendica il diritto al reddito, alla casa, al lavoro, alla parità salariale, a misure di sostegno contro la violenza.
Lo sciopero dell’8 marzo non è soltanto una forma di interruzione del lavoro a scopi di protesta, con obiettivi contrattuali, è un processo di lotta che attraversa i confini tra pubblico, privato, economico e psicologico, e afferma un principio su tutti: basta all’oppressione e allo sfruttamento.
Dobbiamo contrastare i tentativi con cui i sistemi politici ed economici, controllando gli individui, distruggono i legami personali e sociali.
Gli oppressi hanno ottenuto la libertà solo con la lotta. Noi siamo piratesse e sappiamo che la nostra libertà arriva esattamente fin dove riusciamo a spingerci. L’8 marzo è il giorno in cui la nostra lotta deve ricentrarsi, non dobbiamo solo renderla palese, dobbiamo riconsiderarla e riorganizzarla.
È istintivo considerare la libertà è asserzione alla vita, ai piaceri, ai godimenti, alla possibilità di attuarsi secondo i propri desideri e le proprie inclinazioni. Ma la libertà non è solo l’avanguardia del sì, è anche la resistenza del no. È anche possibilità di rifiutare, di opporsi.
La donna può negarsi, sottrarsi, smettere, respingere, dire no. Al padre, al datore di lavoro, al compagno di una vita, a un figlio. La donna può dire no. Se può dire no, allora gli assensi, le affermazioni, le accettazioni sono una reale condizione di parità.
L’8 marzo è un arrembaggio e se questo tesoro non lo abbiamo ancora trovato, noi non smettiamo di cercarlo!